Verso un archivio vivente: cartografie di una ricerca in trasformazione

La ricostruzione del mio archivio storico diventa occasione per rileggere decenni di sperimentazioni tra pittura, polimaterico e digitale: un’indagine sulle forme dell’immagine e sulle traiettorie intime che ne hanno guidato l’evoluzione.

Sto costruendo il mioarchivio storico.

Non è un gesto nostalgico né un esercizio di ordine: è un attraversamento. Rimettere mano alle opere, ai materiali, ai frammenti che hanno accompagnato decenni di ricerca significa tornare nei luoghi in cui l’immagine ha iniziato a resistere, a chiedere tempo, a farsi pensiero. Ogni lavoro riemerge come un momento marginale che respira, come una traccia che non smette di interrogare il presente.

In questo processo ritrovo la mia storia: la pittura degli inizi, gli assemblaggi polimaterici, le incursioni digitali, i materiali di recupero che oggi ampliano il campo visivo e concettuale. Ritrovo anche i gesti minimi — i giochi costruiti da bambino con gli scarti, l’ascolto impossibile del mare nella conchiglia — che continuano a modellare il mio modo di vedere.

L’archivio che sto costruendo non vuole conservare, ma attivare.

È un organismo vivo, un luogo in cui memoria, critica sociale e introspezione si intrecciano per restituire non una linea del tempo, ma una geografia in movimento. Nei prossimi giorni condividerò qui alcune tappe di questo percorso: appunti, immagini, marginalia, riflessioni che accompagnano la nascita di un archivio che non chiude, ma apre. Tra articoli, e pagine che vanno dal 1970 ad aoggi,

La Galleria si struttura come un campo di interrogazione dell’immagine contemporanea, un luogo in cui le opere non si limitano a mostrarsi, ma mettono in discussione le condizioni stesse del vedere.

In questo senso, la mia ricerca si colloca in un territorio teorico complesso, dove convergono quattro prospettive fondamentali: l’immagine che resiste (DidiHuberman), l’immagine come corpo e medium antropologico (Belting), l’immagine che vuole qualcosa (Mitchell) e la redistribuzione del sensibile (Rancière).

Da DidiHuberman proviene l’idea dell’immagine come luogo di resistenza in quanto padre del concetto. 

Le opere — pittura, grafie, polimaterico, digitale — non cercano la trasparenza né l’immediatezza. Si sottraggono. Si ispessiscono. Si aprono come margini che respirano, come ferite che non chiedono di essere guarite ma attraversate. Le stratificazioni, gli scarti, le deviazioni formali sono il modo in cui l’immagine rifiuta di essere evidenza e diventa enigma.

Da Hans Belting deriva la lettura dell’immagine come corpo vivo, come qualcosa che non esiste senza un supporto, un medium, un gesto che continua: 

– la pittura degli anni Settanta come luogo emotivo e familiare; 

– il polimaterico degli anni Ottanta come risposta al degrado urbano e alla critica sociale; 

– il digitale come necessità e come apertura all’immateriale; 

– i materiali di recupero come ritorno al corpo dell’immagine, alla sua fragilità, alla sua memoria. 

In questa prospettiva, ogni opera è un organismo, un corpo che porta tracce, ferite, sedimentazioni.

E da W.J.T. Mitchell arriva la domanda: “Che cosa vogliono le immagini?” 

Le mie immagini non vogliono essere comprese. Non vogliono essere consumate. Vogliono essere abitate. Chiedono tempo, frizione, disponibilità. Non cercano l’effetto né l’emozione rapida: chiedono allo spettatore di sostare, di accettare la complessità, di entrare in un dialogo che non è mai pacificato.

Mentre da Jacques Rancière proviene la dimensione politica del mio lavoro, se proprio vogliamo contestualizzare il tutto, inteso come redistribuzione del sensibile.

Le opere spostano ciò che può essere visto, detto, pensato. Non attraverso la denuncia diretta, ma attraverso la costruzione di un campo visivo che destabilizza le gerarchie percettive. L’immagine non illustra la critica sociale: la esercita, la mette in scena, la rende esperienza.

In questo intreccio teorico, l’autobiografia non è un racconto ma una grammatica.

Riemerge nei gesti minimi: 

– il bambino che costruiva giochi con materiali di scarto; 

– l’ascolto impossibile del mare nella conchiglia; 

– il pudore come forma di resistenza etica; 

– la cura dell’archivio come responsabilità verso la propria storia; 

– la sedimentazione del malessere come testimonianza. 

Questi elementi non decorano il lavoro: lo fondano. E la Galleria, così intesa, non è un contenitore ma un dispositivo critico. 

Le opere dialogano come un archivio vivo, un ecosistema di immagini che si trasformano reciprocamente. Memoria, introspezione e critica sociale non sono temi, ma forze che attraversano le superfici, generando una geografia visiva in continua mutazione. Qui l’immagine non rappresenta: agisce. Resiste, chiede, vuole, redistribuisce. 

E nel farlo, apre lo spazio per un pensiero che non cerca la soluzione, ma la profondità.

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