Biografia

 Ai miei figli Massimiliano, Valentina e Manuela,

che hanno visto il mio cammino e ne portano traccia.

Alle mie nipoti Greta e Cecilia,

germogli di luce e di futuro.

E a Maria, la loro mamma,

che custodisce con grazia il tempo che cresce.

Questa biografia è per voi.

Perché ogni tela, ogni parola, ogni gesto,

è stato vissuto anche con voi accanto.

È il racconto di un uomo che ha cercato di servire l’arte,

non come trono, ma come tavola condivisa.

Se qualcosa resterà, sarà grazie alla vostra presenza.

Grazie per aver camminato con me.



Il seme e la strada: memorie di un artista al servizio dell’altro

 La strada segnata dalla creatività

Ci sono strade che non si scelgono: ti chiamano. Non sai perché, ma senti che devi andare. È più forte della volontà cosciente, come un richiamo antico che vibra dentro. La mia strada è segnata dal dialogo costante con la creatività. Non come esercizio estetico, ma come vocazione, come linguaggio dell’anima.

Ho imparato a osservare la vita con attenzione. Il mio sguardo accarezza e scandaglia la superficie del reale: gli oggetti costruiti dall’uomo, le relazioni, i gesti quotidiani. Lentamente, si è sedimentata in me la consapevolezza che la creatività è un dono naturale, ma non basta riceverlo: va coltivato con amore, come un seme che deve germogliare e diventare pianta vigorosa e utile.

Ho fatto molti lavori per vivere: operaio, impiegato, factotum. Ho insegnato, condiviso il mio bagaglio esperienziale e culturale, trasmesso il disegno e la pittura. Ma il momento più alto, più vero, è stato quello in cui ho messo la mia arte al servizio dell’altro.

Tra il 1976 e il 1978, ho collaborato con la Fondazione Betania di Santa Maria in Catanzaro, una comunità di sostegno all’handicap. Lì, il disegno è diventato strumento di comunicazione per chi non aveva voce. Grafie elementari e colore hanno restituito fiducia, gratificazione, scambio. Ogni ospite ha potuto apprendere e fare proprio lo strumento, secondo le proprie possibilità motorie e intellettive.

Abbiamo realizzato insieme un murale lungo il muro di cinta dell’istituto, dal titolo Dall’acqua la vita!. Un’opera collettiva, entusiasmante, che ha trasformato il luogo in un racconto visivo. E poi, un secondo progetto: una struttura plastica con cemento, sabbia, rete metallica e natura. Una cascata con laghetto, pesciolini e ninfee. Un’esperienza indescrivibile, portata a compimento con la partecipazione attiva degli allievi e degli ospiti, educatori compresi.

Quello è stato il mio momento di comunione. Non solo arte, ma cultura vissuta. Non solo tecnica, ma amore. Non solo lavoro, ma dono.


 L’arte come mestiere, missione e mistero

L’arte non è mai stata per me un ornamento. È stata mestiere, missione e mistero. Un mestiere perché ho imparato le tecniche, le ho studiate, le ho insegnate. Una missione perché ho sentito il bisogno di trasmettere, di condividere, di far crescere. Un mistero perché ogni gesto creativo porta con sé qualcosa che sfugge alla logica, che nasce da un impulso profondo, da una necessità interiore.

Ho insegnato disegno e pittura con passione, cercando di far emergere in ogni allievo non solo la capacità tecnica, ma la voce interiore. Perché disegnare non è solo tracciare linee: è ascoltare, è tradurre ciò che si sente in forme visibili. Ho visto mani insicure diventare sicure, occhi distratti diventare attenti, cuori chiusi aprirsi davanti a un foglio bianco.

Nel mio percorso ho sviluppato progetti culturali e artistici che non avevano come fine la mostra, il riconoscimento, la firma. Avevano come fine l’incontro. L’incontro tra persone, tra idee, tra esperienze. L’arte come spazio comune, come luogo dove ognuno può portare qualcosa e ricevere qualcosa.

Ho lavorato con materiali diversi: carta, colore, cemento, sabbia, metallo, natura. Ogni materiale ha una voce, una resistenza, una possibilità. E ogni progetto è stato un dialogo tra me e la materia, tra me e gli altri, tra me e il tempo.

Non ho mai separato il fare artistico dal vivere quotidiano. Anche quando ho fatto l’operaio, l’impiegato, il factotum, ho portato con me lo sguardo dell’artista. Perché l’arte non è solo nel quadro appeso: è nel modo in cui si piega un foglio, si accarezza una superficie, si guarda una persona.


 L’incontro con Antonello Trombadori: il compito dell’artista

Ci sono incontri che durano un attimo, ma restano per sempre. Uno di questi, per me, fu con Antonello Trombadori, intellettuale raffinato, critico d’arte, uomo di sinistra con una visione profonda e militante della cultura.

Lo incontrai in un momento di entusiasmo, mentre parlavo della mia passione e cercavo di spiegare una tela appena dipinta. Volevo raccontare il processo, il pensiero, il gesto. Ma lui mi interruppe con fermezza, senza arroganza, ma con la lucidità di chi sa il proprio ruolo:

“Il tuo compito è dipingere! Sta a noi critici dire e parlare di te e dell’arte.”

Poi aggiunse, con un sorriso che sapeva di incoraggiamento:

“Comunque bravo! Lavora. E quando sei a Roma, fammelo sapere.”

Continuai a lavorare, e lo sto facendo ancora. Ma con lui non mi incrociai più. Non per un motivo preciso, ma forse perché quell’incontro aveva già detto tutto. Non sentii più l’urgenza di confrontarmi. Avevo ricevuto il messaggio, e dovevo solo portarlo avanti.


 Linguaggi mutevoli: l’arte come dialogo nel tempo

Il tempo non ha mai spento la mia urgenza creativa. Anzi, l’ha affinata. Se negli anni ’70 il mio lavoro era immerso nella dimensione comunitaria, oggi continua a essere un ponte tra sensibilità, un linguaggio che muta ma non perde la sua radice: il desiderio di comunicare.

La mostra Linguaggi mutevoli, allestita presso la galleria Arte Spazio di Catanzaro, ha raccolto oltre 80 opere. Un viaggio visivo e semantico, dove ogni tela è una voce, ogni segno una parola, ogni colore un’emozione. Ho cercato di raccontare il cambiamento, la metamorfosi, la fluidità dell’essere umano e del suo pensiero.

Questa frase è diventata il cuore pulsante della mostra:

“Quello che ci dà sensazioni o ci comunica qualcosa va sublimato.”

Un altro momento significativo è stata la donazione dell’opera Io sono vita, abbraccio essenziale al Centro Calabrese di Solidarietà. Un gesto che ha voluto ribadire il mio impegno sociale, la mia convinzione che l’arte debba uscire dai confini dell’élite e diventare comunicazione tra sensibilità.


 Tra umiltà, vanità e mercificazione: il volto umano dell’arte

Nel mio cammino ho incontrato molti pittori. Alcuni noti, altri meno, ma tutti accomunati da un desiderio: quello di esprimere sé stessi attraverso la pittura. Alcuni coltivavano la passione come un hobby, per timidezza o per umiltà. Altri, invece, si muovevano con un eccesso di vanità, come se l’arte fosse uno specchio da cui ricevere applausi.

Non giudico. È caratteriale. Fa parte di ognuno di noi. Ma c’è un atteggiamento che non ho mai condiviso, perché non mi è consono: la mercificazione della cultura e dell’arte. L’arte non è un prodotto da vendere come un qualsiasi oggetto. È un linguaggio, un ponte, un dono. Quando diventa solo merce, perde la sua anima.

Sia chiaro: i soldi servono. Servono per vivere, per sfamare la famiglia, per dare dignità al proprio lavoro. Ma una volta che hai garantito questo, il resto è superfluo. L’arte non può essere guidata dalla fame di guadagno. Deve essere guidata dalla fame di senso.


 Il segno che resta: educare alla poesia del gesto

Un giorno, durante una lezione, un allievo mi chiese:

“Professore, come posso fare un disegno uguale al vero?”

Gli risposi che servono pazienza e osservazione attenta, perché la tecnica nasce da come recepisci e trasmetti ciò che vedi. Ma poi gli dissi qualcosa che per me è essenziale:

“Per trasmettere poesia, devi lasciare che tutto sedimenti dentro di te.”

Non è la verosimiglianza delle cose che abitano la realtà a lasciare un segno. Il segno lo lascia il lavoro espletato



 Il quadro nero di Leo: l’arte come gesto d’amore

Una sera, Leo arrivò allo studio con una tela sotto braccio. Leo era un ragazzone enorme, spesso deriso dalla comunità di residenza per via del suo carattere. Sensibile, silenzioso, profondo. Quella tela era dipinta malamente, sporca, piena di nero. Un esteta avrebbe detto: “Fatta malissimo.” Ma io rimasi colpito. Profondamente.

Il giorno prima ero arrivato allo studio distrutto. Una giornata estenuante di lavoro, quello che mi garantiva lo stipendio, ma che mi lasciava svuotato. Leo non lavorò. Non prese i colori, non disegnò. Mi osservava. Con un sorrisetto compassionevole, quasi tenero. Mi stava studiando.

E il giorno seguente, mi portò quel quadro. Era il suo modo di raccontarmi. Di restituirmi. Di abbracciarmi. Quel nero non era rabbia, era cura. Era il suo modo di dire: “Ti ho visto. Ti ho capito. Questo è per te.”

In quel momento capii che l’arte non è solo tecnica, bellezza, armonia. È empatia. È ascolto. È gesto d’amore. Leo non aveva dipinto per stupire. Aveva dipinto per donare. E quel quadro, sporco e sbilenco, era più vero di mille opere perfette.

Mi insegnò qualcosa che non ho mai dimenticato: l’arte è relazione. È il modo in cui ci prendiamo cura l’uno dell’altro. È il segno che resta quando le parole non bastano.



 La strada e la fame d’arte

 Firenze, freddo e tele: il battesimo del neofita

Forse anche io, come la lumachella della Vanagloria di Trilussa, lascio una scia. Ma non di vanità: di esperienza, di amore, di tentativi. Di passi fatti con poco, ma con tutto il cuore.

Era il 1975, forse il ’76. Ero giovane, affamato d’arte e di storia. Avevo conosciuto un gallerista, e infatuato della grandezza di Firenze, decisi di fare una mostra. Non avevo mezzi, solo entusiasmo e una decina di tele 50x70, dipinte a olio, senza cornice. Il gallerista avrebbe pensato all’allestimento, come da accordi.

Chiesi un passaggio a un camionista. Mi portò fino al casello, poi deviò per Pescara. Mi lasciò lì, all’uscita dell’autostrada, con il mio carico di sogni e di quadri. Trovai un altro passaggio, e finalmente arrivai a Firenze.

Era ancora l’alba. Faceva freddo. Mi fermai in un bar vicino alla galleria, in via dei Servi al numero 14. Presi un caffè, mi sedetti, e spossato mi appisolai sulla sedia. Con le tele accanto, come compagne di viaggio.

Quella mostra fu una prova. Non solo artistica, ma umana. Mi fece crescere. Mi fece capire il sottobosco animato che s’aggira attorno ai neofiti: galleristi, curiosi, opportunisti, anime belle e anime in cerca. Un mondo che osserva, misura, giudica. Ma anche un mondo che può accogliere, se si arriva con sincerità.

Firenze mi insegnò che l’arte non basta: serve anche la pelle dura. Ma mi confermò che il gesto creativo, quando è vero, trova sempre una strada. Anche se parte da un casello, anche se arriva all’alba, anche se si appisola su una sedia.


La sala d’onore e il trafiletto: il vuoto del non incontro

Il gallerista aveva programmato di ospitare due artisti, per contenere i costi. I miei lavori furono esposti nella cosiddetta “sala d’onore”, mentre quelli dell’altra artista — il cui nome, mi perdonerà, non ricordo — nella saletta adiacente.

Qualche giorno dopo, mi arrivò per posta una copia de La Nazione, il quotidiano di Firenze. Il critico locale aveva scritto belle parole, un trafiletto di poche righe, ma gentile, rispettoso. Eppure, quella mostra non mi lasciò nulla. Nessuno slancio, nessuna gioia. Anzi, fui invaso da un senso di frustrazione che non so ancora spiegare del tutto.

Non era delusione. Non mi aspettavo chissà cosa. Ma mi era mancato qualcosa di essenziale: il contatto. Il respiro condiviso con i visitatori, lo scambio di sguardi, le domande, le pause davanti a una tela. Mi era mancata l’esperienza viva dell’esposizione, quella che si acquisisce solo stando lì, tra la gente, tra le reazioni, tra i silenzi.

Una mostra non è solo un evento. È un luogo di relazione. E quella volta, pur avendo esposto, non avevo incontrato. E senza incontro, l’arte resta sospesa. Bella, forse. Ma muta.


 Bologna, la Fiat 127 e la fotografia trattata

Bologna fu un’esperienza diversa. Partii di notte, insieme a mia moglie. Nostro figlio Massimiliano rimase a casa con la nonna. La mia Fiat 127 era carica: il bagagliaio pieno, l’abitacolo stipato, le tele appoggiate sul sedile posteriore. Una ventina di lavori, forse di più. L’arte viaggiava con noi, come un passeggero silenzioso.

Allo svincolo di Lamezia Terme, un piccolo incidente turbò gli animi. Per evitare un cane randagio — o chissà cosa — frenai di colpo. Patatrac! Le tele mi caddero addosso. Accostai nella piazzola di sosta e risistemai il carico. Era come se l’arte stessa si fosse ribellata, avesse voluto ricordarmi che ogni viaggio creativo comporta squilibri, scosse, rimescolamenti.

A Bologna, il gallerista mi ospitò nella sua residenza d’artista — così si chiama oggi. L’inaugurazione fu dignitosa. Quel giorno, in galleria, si svolgeva anche la consegna delle chiavi ai nuovi galleristi che sarebbero subentrati. Un passaggio di testimone, un momento di transizione.

La mostra fu buona, ma non ottima. Non per la qualità dei lavori, ma per il contesto. Nello stesso periodo apriva i battenti la prima edizione di Arte Fiera Bologna. E si sa: quando nasce un grande evento, l’attenzione si sposta. I collezionisti, gli appassionati, i critici — tutti erano lì. E io, con le mie venti tele e la mia Fiat 127, ero altrove. In un luogo più intimo, più silenzioso, forse più vero.

In quel periodo iniziai anche la mia ricerca sulla fotografia trattata. Mi affascinava la possibilità di intervenire sull’immagine, di trasformarla, di renderla materia viva. Non era solo documentazione: era manipolazione poetica. Un nuovo linguaggio, un’altra voce.

Anche quella fu esperienza. Un tassello. Un passo. Un segno.


Linguaggi della visione: l’immagine come territorio da esplorare

In quegli anni, qualcosa cambiò nel mio sguardo. Non mi bastava più dipingere. Sentivo il bisogno di capire. Di interrogare l’immagine, di esplorarne i codici, i meccanismi, le ambiguità. Iniziai una ricerca sui linguaggi della visione, sui mezzi di comunicazione che usano l’immagine come veicolo, come messaggio, come potere.

La pubblicità mi affascinava e mi inquietava. Era ovunque, invadente, seduttiva. Ma anche fragile, effimera, destinata a sparire. Mi attiravano gli assemblaggi visivi, le sovrapposizioni casuali dei manifesti affissi dappertutto: strati di carta, di colore, di slogan, di volti. Un caos che diventava composizione. Un disordine che parlava.

Iniziai a raccogliere, a fotografare, a trattare le immagini. Non per documentare, ma per trasformare. La fotografia diventò materia, superficie da manipolare, da interrogare. Non era più solo uno scatto: era un gesto critico, un atto poetico.

Questa ricerca mi portò a riflettere sul potere dell’immagine, sulla sua capacità di influenzare, di costruire realtà, di generare desideri. Ma anche sulla sua fragilità, sulla sua natura transitoria, sul suo essere specchio e maschera.

Fu un periodo di grande fermento. Di studio, di esperimenti, di intuizioni. L’arte si apriva a nuovi territori. E io, come sempre, cercavo di camminarci dentro con passo umile, ma deciso.


 L’immagine come territorio: la visione interrogata

La pittura mi aveva dato molto. Ma a un certo punto, non bastava più. Sentivo che l’immagine, quella che ci circonda ogni giorno — pubblicitaria, urbana, mediatica — aveva qualcosa da dire. O da nascondere. E così iniziai una nuova ricerca: sui linguaggi della visione, sui mezzi di comunicazione che usano l’immagine per parlare, persuadere, sedurre, confondere.

Mi attiravano le sovrapposizioni effimere dei manifesti affissi ovunque. Strati di carta, di slogan, di volti, di promesse. Un caos visivo che diventava composizione involontaria. Mi fermavo a osservare, a fotografare, a raccogliere. Quei frammenti mi parlavano più di mille discorsi.

La pubblicità, con la sua grammatica aggressiva, mi affascinava e mi inquietava. Era il volto del potere visivo. Ma anche il suo punto debole. Bastava un taglio, una piega, una sovrapposizione, e il messaggio si trasformava. Diventava altro. Diventava materia poetica.

Iniziai a trattare le immagini. A manipolarle. A interrogarle. La fotografia non era più solo documento: era gesto critico, atto creativo, scrittura visiva. Assemblaggi, collage, interventi manuali. Ogni opera era una domanda: Cosa vediamo davvero? Cosa ci viene mostrato? Cosa ci sfugge?

Questa ricerca mi aprì nuovi orizzonti. Mi fece capire che l’arte non è solo creazione, ma anche decifrazione. Che l’immagine non è solo superficie, ma campo di battaglia. E che l’artista, oggi più che mai, deve essere anche lettore, osservatore, resistente.


 La materia e il tempo: ferite che parlano

Negli anni Novanta, la mia ricerca artistica ha preso una nuova direzione.

Non bastava più il colore, il segno, la forma.
Sentivo il bisogno di ascoltare la materia.
Di lasciarla parlare. Di farle dire ciò che il tempo le aveva insegnato.
Porta con sé le tracce del vissuto, le ferite, le abrasioni, le pieghe.
È testimone silenziosa del passaggio dell’uomo,
della violenza della natura,
della bellezza che resiste.
legni consumati, metalli ossidati, carte strappate, tessuti lacerati.
Ogni elemento aveva una storia.
Ogni superficie era già narrazione.
Fu spirituale.
Fu il tentativo di dare voce a ciò che non parla,
di far emergere il dolore e la dignità delle cose.
Sono opere che non chiedono di essere capite,
ma sentite.
Che non mostrano, ma trasmettono.
Diventa testimone.
Diventa compagna per le anime sensibili
che sanno leggere il tempo inciso nelle cose.

La materia è viva.

Iniziai a lavorare con materiali diversi:

La fase polimaterica della mia ricerca non fu solo tecnica.

Alcuni di questi lavori sono raccolti nelle mie pagine web.

La materia, quando è ascoltata, diventa memoria.



 La materia e il tempo: ferite che parlano, trasmettono il sentire vissuto

A metà degli anni Ottanta, qualcosa cambiò nel mio modo di guardare.
Non bastava più il colore, il segno, la forma.
Sentivo il bisogno di ascoltare la materia.
Di lasciarla parlare. Di farle dire ciò che il tempo le aveva insegnato.

Il muro, le crepe, i segni del tempo, le abrasioni, le stratificazioni casuali: tutto mi trasmetteva qualcosa d’indefinito, ma profondamente poetico.
Una voce muta, eppure insistente.
Una bellezza ferita, che chiedeva di essere accolta.

Iniziai a lavorare con materiali diversi:
assi di legno e cartone pressato, cellulosa grezza, gesso, cemento, pezzi di giornali, porzioni di manifesti.
Costruzioni anomale, assemblaggi che non cercavano armonia, ma verità.

Un giorno venne allo studio Nuccio Marullo, fine intellettuale catanzarese.
Volevo fargli vedere ciò che mi affascinava.
Mi vide alle prese con quelle forme irregolari, quei materiali poveri, quei gesti silenziosi.
Parlammo a lungo.
Qualche giorno dopo mi regalò una sua pubblicazione su un giornale locale.
Un gesto semplice, ma per me importante: un invito diventato sprone.

Lavorai su quei temi con dedizione.
A fine anni ’80, inizi ’90, esposi una trentina di opere polimateriche al Palazzo della Provincia di Catanzaro.
Avrei voluto inserire la sua recensione nel catalogo, ma è andata persa.
Rimane di lui la grande stima, reciproca.
E quel momento condiviso, che ha dato forza alla mia ricerca.

La fase polimaterica non fu solo tecnica.
Fu spirituale.
Fu il tentativo di dare voce a ciò che non parla,
di far emergere il dolore e la dignità delle cose.

Alcuni di questi lavori sono raccolti nelle mie pagine web.
Sono opere che non chiedono di essere capite,
ma sentite.
Che non mostrano, ma trasmettono.

La materia, quando è ascoltata, diventa memoria.
Diventa testimone.
Diventa compagna per le anime sensibili
che sanno leggere il tempo inciso nelle cose.



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