Qualcosa di me. Confidenzialmente ...



In confidenza

"nello studio di via Bezzecca, Corvo, Cz"
Scrivere di sé e dare un'impressione positiva a chi legge non è difficile.

È sufficiente mettere nero su bianco gli eventi positivi e sublimarli un po'. 
Condire con metafore erudite e aneddoti sagaci alcuni momenti vissuti. 
Enfatizzare legami, incontri importanti, partecipazioni a eventi e il gioco è fatto. 

Ma io la penso diversamente. Amo sperimentare!
L'ovvio mi deprime. Mi dà noia al pari se non peggio dei lavori lisciati, falsamente accademici, di maniera. Pitture o sculture ruffiane tirate su in serie al solo scopo di trovare compratori. Lavori fatti da scaltri personaggi con un minimo di conoscenza per gli ignoranti in attesa della "sensazione". Gente che non ama l'arte, la ricerca, ma i soldi e la vanagloria.

Per ovviare al decadentismo culturale che relega i linguaggi artistici della visione a mere suppellettili, ma principalmente per amore della cultura che apre le menti ai linguaggi della visione, nel 1986 apro le porte dello studio ai giovani e inizio dei percorsi d’arte figurativa. Organizzo e avvio stage, esposizioni d’arte; curo gli allestimenti e i cataloghi delle mostre degli allievi.

Nel 1996 collaboro con la Fondazione Betania, in Catanzaro e organizzo percorsi
riabilitativi visivi per persone con disabilità. 

Nascono i progetti “Murales, dall'acqua la vita” e “Arte & artigianalità”. Progetto plastico il secondo e grafico/pittorico il primo. 
In entrambi i progetti, i diversamente abili, coi loro tempi e la loro manualità, coadiuvati da alcuni allievi dello studio d'arte e da operatori della Fondazione, sotto la mia supervisione, sovvertono i preconcetti granitici dei normodotati.

Nel 1999, il 1° febbraio, in Campidoglio ricevo un riconoscimento gradito: “Personalità Europea 1998” per l’arte, dal Centro Europeo per il turismo, lo spettacolo e la cultura di Roma.

Tralascio volutamente di ricordare ulteriori partecipazioni a fiere, mostre e citare personalità note. 


Ritengo il lavoro artistico patrimonio culturale della collettività. Ovvero: prodotto che giova fortemente alla mente e al corpo dell'intera umanità.


Il resto è aria fritta!

Per tenere fede alle mie convinzioni e per vivere ho fatto l’operaio, il tecnico, l’impiegato, il
Docente.
E tra un graffio, una pennellata e un assemblaggio pubblico testi di narrativa, cataloghi e libri d’arte, recensisco esposizioni artistiche e, quando capita, collaboro con enti pubblici e privati.
Ho avviato anche laboratori creativi nel territorio catanzarese.


Cenni biografici, in un racconto che unisce vita, arte, ricerca e dedizione, e apre con una dedica che è già poesia.


🌿 Il seme e la strada

Memorie di un artista al servizio dell’altro

di Mario Iannino


Prefazione – A chi cammina con me

A mia moglie Anna, compagna di vita e di silenzi,
che ha saputo ascoltare anche quando non parlavo.
Ai miei figli Massimiliano, Valentina e Manuela,
che hanno visto il mio cammino e ne portano traccia.
Alle mie nipoti Greta e Cecilia,
germogli di luce e di futuro.
E a Maria, la loro mamma,
che custodisce con grazia il tempo che cresce.

Questa biografia è per voi.
Perché ogni tela, ogni parola, ogni gesto,
è stato vissuto anche con voi accanto.
È il racconto di un uomo che ha cercato di servire l’arte,
non come trono, ma come tavola condivisa.

Se qualcosa resterà, sarà grazie alla vostra presenza.
Grazie per aver camminato con me.


Parte Prima – Le radici e il dono

Capitolo 1 – La strada segnata dalla creatività
Ci sono strade che non si scelgono: ti chiamano. Non sai perché, ma senti che devi andare. È più forte della volontà cosciente, come un richiamo antico che vibra dentro. La mia strada è segnata dal dialogo costante con la creatività. Non come esercizio estetico, ma come vocazione, come linguaggio dell’anima.
Tra il 1976 e il 1978, ho collaborato con la Fondazione Betania di Santa Maria in Catanzaro, una comunità di sostegno all’handicap. Lì, il disegno è diventato strumento di comunicazione per chi non aveva voce.
Quello è stato il mio momento di comunione. Non solo arte, ma cultura vissuta. Non solo tecnica, ma amore. Non solo lavoro, ma dono.

Capitolo 2 – L’arte come mestiere, missione e mistero
L’arte non è mai stata per me un ornamento. È stata mestiere, missione e mistero.
Non ho mai separato il fare artistico dal vivere quotidiano. Anche quando ho fatto l’operaio, l’impiegato, il factotum, ho portato con me lo sguardo dell’artista.

Capitolo 3 – L’incontro con Antonello Trombadori: il compito dell’artista
Ci sono incontri che durano un attimo, ma restano per sempre. Uno di questi, per me, fu con Antonello Trombadori.
Avevo ricevuto il messaggio, e dovevo solo portarlo avanti.

Capitolo 4 – Linguaggi mutevoli: l’arte come dialogo nel tempo
Il tempo non ha mai spento la mia urgenza creativa. Anzi, l’ha affinata.
La mostra Linguaggi mutevoli, allestita presso la galleria Arte Spazio di Catanzaro, ha raccolto oltre 80 opere.
Un gesto che ha voluto ribadire il mio impegno sociale, la mia convinzione che l’arte debba uscire dai confini dell’élite e diventare comunicazione tra sensibilità.

Capitolo 5 – Tra umiltà, vanità e mercificazione: il volto umano dell’arte
Nel mio cammino ho incontrato molti pittori. Alcuni noti, altri meno, ma tutti accomunati da un desiderio: quello di esprimere sé stessi.
L’arte non può essere guidata dalla fame di guadagno. Deve essere guidata dalla fame di senso.

Capitolo 6 – Il segno che resta: educare alla poesia del gesto
Un giorno, durante una lezione, un allievo mi chiese:

“Professore, come posso fare un disegno uguale al vero?”
Non è la verosimiglianza delle cose che abitano la realtà a lasciare un segno. Il segno lo lascia il lavoro espletato con amore, con tempo, con ascolto.

Capitolo 7 – Il quadro nero di Leo: l’arte come gesto d’amore
Una sera, Leo arrivò allo studio con una tela sotto braccio. Un quadro dipinto malamente, sporco, pieno di nero. Un esteta avrebbe detto: “Fatta malissimo.” Ma io rimasi colpito.
Quel nero non era rabbia, era cura. Era il suo modo di dire: “Ti ho visto. Ti ho capito. Questo è per te.”
Mi insegnò qualcosa che non ho mai dimenticato: l’arte è relazione. È il modo in cui ci prendiamo cura l’uno dell’altro.


Parte Seconda – La strada e la fame d’arte

Capitolo 8 – Firenze, freddo e tele: il battesimo del neofita
Era il 1975, forse il ’76. Ero giovane, infatuato della grandezza di Firenze. Decisi di fare una mostra.
Quella mostra fu una prova. Non solo artistica, ma umana. Mi fece crescere. Mi fece capire il sottobosco animato che s’aggira attorno ai neofiti.

Capitolo 9 – La sala d’onore e il trafiletto: il vuoto del non incontro
I miei lavori furono esposti nella “sala d’onore”. Il critico locale scrisse belle parole su La Nazione.
Eppure, quella mostra non mi lasciò nulla. Mi era mancato qualcosa di essenziale: il contatto.
Una mostra non è solo un evento. È un luogo di relazione. E quella volta, pur avendo esposto, non avevo incontrato.

Capitolo 10 – Bologna, la Fiat 127 e la fotografia trattata
Partii di notte, con mia moglie. Massimiliano rimase a casa con la nonna. La Fiat 127 era carica di venti tele.
La mostra fu buona, ma non ottima. Nello stesso periodo apriva Arte Fiera Bologna.
In quel periodo iniziai anche la mia ricerca sulla fotografia trattata. Non era solo documentazione: era manipolazione poetica. Un nuovo linguaggio, un’altra voce.

Capitolo 11 – Linguaggi della visione: l’immagine come territorio da esplorare
Iniziai una ricerca sui linguaggi della visione, sui mezzi di comunicazione che usano l’immagine come veicolo.
Mi attiravano le sovrapposizioni effimere dei manifesti affissi ovunque.
La fotografia diventò materia, superficie da manipolare. Ogni opera era una domanda: Cosa vediamo davvero?
L’artista, oggi più che mai, deve essere anche lettore, osservatore, resistente.

Capitolo 12 – L’immagine come territorio: la visione interrogata
La pubblicità mi affascinava e mi inquietava. Era il volto del potere visivo.
Assemblaggi, collage, interventi manuali. Ogni opera era una domanda.
L’arte si apriva a nuovi territori. E io, come sempre, cercavo di camminarci dentro con passo umile, ma deciso.

Capitolo 13 – La materia e il tempo: ferite che parlano
Negli anni Novanta, la mia ricerca artistica ha preso una nuova direzione.
Non bastava più il colore, il segno, la forma.
Sentivo il bisogno di ascoltare la materia.
Di lasciarla parlare. Di farle dire ciò che il tempo le aveva insegnato.

La materia è viva.
Porta con sé le tracce del vissuto, le ferite, le abrasioni, le pieghe.
È testimone silenziosa del passaggio dell’uomo,
della violenza della natura,
della bellezza che resiste.

Iniziai a lavorare con materiali diversi:
legni consumati, metalli ossidati, carte strappate, tessuti lacerati.
Ogni elemento aveva una storia.
Ogni superficie era già narrazione.

La fase polimaterica della mia ricerca non fu solo tecnica.
Fu spirituale.
Fu il tentativo di dare voce a ciò che non parla,
di far emergere il dolore e la dignità delle cose.

Alcuni di questi lavori sono raccolti nelle mie pagine web.
Sono opere che non chiedono di essere capite,
ma sentite.
Che non mostrano, ma trasmettono.

La materia, quando è ascoltata, diventa memoria.
Diventa testimone.
Diventa compagna per le anime sensibili
che sanno leggere il tempo inciso nelle cose.


Grazie Nino. Questo frammento è intenso, vivo, e merita di chiudere il Capitolo 13 come un ponte verso il presente. Ho integrato le tue parole nella parte finale del capitolo, mantenendo il tono poetico e riflessivo che attraversa tutta la biografia. Ecco la versione definitiva:


Capitolo 13 – La materia e il tempo: ferite che parlano

A metà degli anni Ottanta, qualcosa cambiò nel mio modo di guardare.
Non bastava più il colore, il segno, la forma.
Sentivo il bisogno di ascoltare la materia.
Di lasciarla parlare. Di farle dire ciò che il tempo le aveva insegnato.

Il muro, le crepe, i segni del tempo, le abrasioni, le stratificazioni casuali: tutto mi trasmetteva qualcosa d’indefinito, ma profondamente poetico.
Una voce muta, eppure insistente.
Una bellezza ferita, che chiedeva di essere accolta.

Iniziai a lavorare con materiali diversi:
assi di legno e cartone pressato, cellulosa grezza, gesso, cemento, pezzi di giornali, porzioni di manifesti.
Costruzioni anomale, assemblaggi che non cercavano armonia, ma verità.

Un giorno venne allo studio Nuccio Marullo, fine intellettuale catanzarese.
Volevo fargli vedere ciò che mi affascinava.
Mi vide alle prese con quelle forme irregolari, quei materiali poveri, quei gesti silenziosi.
Parlammo a lungo.
Qualche giorno dopo mi regalò una sua pubblicazione su un giornale locale.
Un gesto semplice, ma per me importante: un invito diventato sprone.

Lavorai su quei temi con dedizione.
A fine anni ’80, inizi ’90, esposi una trentina di opere polimateriche al Palazzo della Provincia di Catanzaro.
Avrei voluto inserire la sua recensione nel catalogo, ma è andata persa.
Rimane di lui la grande stima, reciproca.
E quel momento condiviso, che ha dato forza alla mia ricerca.

La fase polimaterica non fu solo tecnica.
Fu spirituale.
Fu il tentativo di dare voce a ciò che non parla,
di far emergere il dolore e la dignità delle cose.

Ma la materia non è solo fisica.
Col tempo, ho iniziato a percepire le contaminazioni visive come parte della mia ricerca:
un graffio, una frase di contestazione o d’amore tracciata sui muri metropolitani,
un lembo di manifesto lacerato che lascia intravedere notizie precedenti sotto la pelle del nuovo.
Tutto questo è linguaggio.
Tutto questo è memoria.

Oggi, la scrittura occupa la maggior parte del mio tempo.
Insieme agli assemblaggi digitali, operazioni stimolanti e necessarie per continuare a creare.
È anche una questione logistica: i miei spazi fisici sono saturi.
Non so più dove immagazzinare, né catalogare.
Nell’attesa di nuovi luoghi, mi tengo attivo scrivendo e componendo immagini con l’aiuto del digitale.
La materia cambia forma, ma non voce.
E io continuo ad ascoltarla.


Eccoti, Nino, l’epilogo aggiornato, che raccoglie il filo della tua biografia e lo intreccia con il presente: la scrittura, il digitale, la materia che continua a parlare. È il tuo saluto, ma anche una soglia aperta.


Epilogo – La scia che resta

Forse anche io, come la lumachella della Vanagloria di Trilussa, lascio una scia.
Ma non di vanità.
La mia è una scia di esperienze, di gesti, di incontri.
Di tentativi sinceri. Di passi fatti con poco, ma con tutto il cuore.

Non ho mai cercato il clamore. Ho cercato il contatto.
Non ho inseguito il mercato. Ho cercato il senso.
Non ho voluto essere visto. Ho voluto essere ascoltato.

Oggi, i miei spazi fisici sono saturi.
Le tele, le opere, i materiali — non so più dove immagazzinarli, né come catalogarli.
Ma la creazione non si ferma.
La scrittura è diventata il mio respiro quotidiano.
Gli assemblaggi digitali sono il mio nuovo gesto.
Sono operazioni stimolanti, necessarie, che mi permettono di continuare a fare.

La materia cambia forma, ma non voce.
Un graffio, una frase tracciata su un muro, un lembo di manifesto lacerato che lascia intravedere ciò che c’era prima — tutto questo continua a parlarmi.
È comunicazione visiva.
È memoria urbana.
È poesia del frammento.

Questa biografia non è un monumento.
È un sentiero. Tracciato con parole, immagini, silenzi.
È il mio modo di dire:
“Ecco, io ho camminato così. Se può servirti, prendi.”

E se un giorno qualcuno troverà in queste pagine
un riflesso, una scintilla, una carezza,
allora sì — quella scia avrà avuto un senso.

— Mario Iannino



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