Dematerializzazione e ri-significazione: continuità e rotture tra tradizione e digitale
Pratiche concettuali e digitali nella trasformazione del fare cultura
Ri-significazione del visibile: dialettica tra lentezza e velocità, tradizione e modernismo
Non è mia intenzione nè voglio trovare soluzioni ad un tema complesso qual è quello dell'arte visiva, intendo sviluppare una analisi
del fare cultura attraverso la manipolazione creativa delle immagini e del
colore rivisitato con i mezzi del mestiere pittorico sia tradizionale che digitale.
L’ analisi del fare cultura attraverso la manipolazione
creativa delle immagini e del colore, con attenzione alle pratiche tradizionali
sia a quelle digitali potrebbe portare a facili concetti riduttivi e
partigiani. Ci provo comunque, mantenendo la mia visione della ricerca nel
campo dei linguaggi mutevoli della comunicazione il più neutrale possibile.
Fare cultura attraverso la manipolazione creativa delle
immagini e del colore: continuità e trasformazioni tra tradizione e digitale
configura il prodotto e la produzione culturale contemporanea in un campo di
tensione tra linguaggi tradizionali e digitali, in cui la manipolazione delle
immagini e del colore assume un ruolo centrale. Non si tratta di un mero
esercizio estetico, ma di un processo di costruzione di senso, memoria e
coscienza collettiva. La manipolazione visiva, sia attraverso il gesto pittorico
sia mediante l’elaborazione digitale, diventa strumento di civismo, resistenza
e ridefinizione dei codici culturali. Questo saggio intende analizzare come la
manipolazione creativa delle immagini e del colore contribuisca a “fare
cultura”, evidenziando continuità e differenze tra pratiche storiche e
contemporanee.
Nella tradizione artistica, la manipolazione del colore e
della forma è stata utilizzata per destabilizzare i canoni estetici e proporre
nuove visioni del mondo. I primi movimenti
post-accademici hanno creato la discontinuità e aperto a nuove forme semantiche
della visione. Ripercorriamo alcune delle azioni divenute “scuole” aperte a nuove
forme estetiche ma, principalmente, a metodo d’indagine “visionaria”:
- il Cubismo si è caratterizzato per la frammentazione della
prospettiva operata da Picasso e Braque che manipola la percezione visiva,
trasformando la rappresentazione in analisi critica della realtà.
- l’Espressionismo caratterizza la distorsione cromatica e
formale, e intensifica l’emozione, rendendo il colore veicolo di denuncia
sociale e psicologica.
- L’impressionismo, è un passaggio fondamentale per
comprendere la manipolazione creativa delle immagini e del colore come pratica
culturale. Nato in Francia nella seconda metà dell’Ottocento, l’impressionismo
segna una frattura rispetto all’accademismo e alla pittura storica.
La manipolazione del colore diventa centrale: pennellate
rapide, frammentate, luminose, che non cercano la fedeltà mimetica ma la
percezione soggettiva dell’istante.
L’immagine non è più costruita come rappresentazione
stabile, ma come esperienza visiva in movimento.
"Fare cultura significa, per gli Impressionisti,
manipolare il visibile: immagini e colori non come semplice ornamento, ma come
strumenti di civismo e resistenza. Dalla pennellata impressionista che
reinventa la luce, fino al pixel digitale che smaschera l’algoritmo, ogni gesto
creativo trasforma la percezione in coscienza collettiva."
- mentre nel Muralismo politico di Diego Rivera e i
muralisti messicani manipolano lo spazio urbano con colori saturi e immagini
monumentali, trasformando la città in un dispositivo di educazione civica.
In questi casi, la manipolazione non è decorazione, ma
linguaggio critico che costruisce cultura attraverso la memoria visiva e la
responsabilità comunitaria.
Con l’avvento delle tecnologie digitali, la manipolazione
delle immagini e del colore si è estesa a nuovi territori, quali:
- Glitch Art: l’errore digitale diventa linguaggio estetico
e politico, smascherando la fragilità dei sistemi tecnologici e la loro presunta
neutralità.
- Meme Culture: immagini manipolate e colori semplificati
circolano come strumenti di satira e resistenza, configurando un nuovo
muralismo diffuso e accessibile nel web.
- Estetiche ipersature e Vaporwave: palette fluorescenti e
remix di immagini nostalgiche manipolano la memoria collettiva, trasformandola
in critica alla società consumistica e all’estetica corporate.
- NFT e mercificazione digitale: la manipolazione cromatica
e visiva entra nel mercato come asset, mostrando l’ambivalenza tra
emancipazione creativa e nuova tesaurizzazione speculativa.
La manipolazione creativa delle immagini e del colore, sia
tradizionale sia digitale, condivide la funzione di “ri-significazione”: non si
limita a rappresentare, ma produce nuovi sensi e nuove memorie. Tuttavia,
emergono differenze sostanziali:
- Tradizione: lentezza del gesto, materialità del colore,
radicamento territoriale.
- Digitale: velocità di riproduzione, smaterializzazione del
dato, circolazione globale.
Entrambe le modalità, però, incidono sul modo in cui le
comunità percepiscono e condividono il mondo, costruendo cultura come pratica
critica e civica.
La manipolazione visiva non si limita a riprodurre il reale,
ma lo ri-significa: attribuisce nuovi sensi a ciò che vediamo, costruisce
memorie condivise, trasforma l’immagine in un dispositivo culturale.
Quali: Tradizione: lentezza, materia, territorio.
Lentezza del gesto: la pittura, il disegno o la scultura
implicano un tempo lungo di esecuzione. La manipolazione è sedimentazione,
riflessione, stratificazione. Ogni pennellata è memoria incorporata.
Materialità del colore: pigmenti, tele, muri, corpi. Il
colore è sostanza viva, che porta con sé odori, consistenze, tracce. La
manipolazione è fisica, tangibile, irripetibile.
Radicamento territoriale: l’opera tradizionale è spesso
legata a un luogo (un affresco in una chiesa, un murale in un quartiere). La
manipolazione diventa civismo perché restituisce identità e memoria a una
comunità concreta.
Mentre il Digitale è: velocità,
smaterializzazione, globalità.
Velocità di riproduzione: il digitale consente manipolazioni
istantanee, replicabili e condivisibili. La ri-significazione è rapida, fluida,
continuamente aggiornata.
Smaterializzazione del dato: il colore non è più pigmento,
ma codice RGB; l’immagine non è più supporto, ma file. La manipolazione è
immateriale, ma non per questo meno incisiva: diventa linguaggio algoritmico.
Circolazione globale: un’immagine manipolata digitalmente
può diffondersi in tempo reale, attraversando confini geografici e culturali.
La ri-significazione è transnazionale, costruisce memorie collettive
planetarie.
Le Differenze come
complementarità.
La tradizione custodisce la profondità, la lentezza e la
radice territoriale: produce cultura come sedimentazione e memoria locale.
Il digitale amplifica la velocità, la replicabilità e la
diffusione globale: produce cultura come flusso e memoria condivisa su scala
planetaria.
Entrambe le
dimensioni, se intrecciate, generano un’ecologia visiva capace di unire la
densità del gesto manuale con la potenza della disseminazione digitale.
In sintesi, la manipolazione creativa delle immagini e del
colore è sempre un atto di ri-significazione:
nel tradizionale, essa costruisce senso attraverso la
materia e il radicamento; nel digitale, attraverso la smaterializzazione e la
circolazione.
In entrambi i casi, il risultato non è semplice
rappresentazione, ma produzione di nuovi sensi e nuove memorie, che alimentano
il fare cultura come civismo e resistenza.
Insomma, la manipolazione creativa delle immagini e del
colore, sia attraverso pigmenti e pennelli sia mediante pixel e algoritmi, è un
atto di civismo che trasforma il visibile in memoria, critica e resistenza.
Essa consente di fare cultura non come accumulo di prodotti, ma come processo
dinamico di costruzione collettiva. In un’epoca segnata dalla mercificazione e
dalla tesaurizzazione deleteria del prodotto artistico, la manipolazione visiva
riafferma il ruolo dell’arte come pratica di emancipazione e responsabilità
sociale. La continuità tra tradizione e digitale dimostra che il vero nucleo
del fare cultura non risiede nel medium, ma nella capacità di manipolare il
visibile per generare coscienza critica e comunità.
La dematerializzazione dell’arte: dal gesto al dato.
Il concetto di dematerializzazione dell’arte emerge negli anni Sessanta e Settanta, in particolare con le pratiche concettuali e performative, come risposta critica alla mercificazione dell’opera. Lucy Lippard e John Chandler, nel celebre saggio The Dematerialization of Art (1968), descrivono il passaggio dall’oggetto materiale al processo, dall’opera tangibile al gesto, dall’arte come prodotto all’arte come idea. Oggi, nell’era digitale, questo processo si radicalizza: l’opera diventa file, dato, algoritmo, immagine replicabile e diffusa in rete.
La Dematerializzazione tradizionale in:
- Arte concettuale: l’opera è ridotta a istruzione, progetto, documento. Il valore risiede nell’idea, non nell’oggetto.
- Performance: il corpo diventa medium effimero, l’opera esiste solo nel tempo dell’azione.
- Land Art: interventi nel paesaggio che sfuggono alla logica del mercato, destinati a trasformarsi o scomparire.
In queste pratiche la manipolazione non è più del colore o della materia, ma del contesto e del significato.
L'Appropriazione del gesto dematerializzato
Arte concettuale: nata per sottrarre l’opera alla logica dell’oggetto, è stata poi “fagocitata” dal mercato attraverso la vendita di certificati, documentazioni e istruzioni. L’idea stessa diventa bene scambiabile.
Performance: pensata come evento irripetibile, è stata catturata da archivi video, fotografie e merchandising. L’effimero viene trasformato in prodotto, selezionato e rivenduto.
Land Art: interventi destinati a dissolversi o integrarsi nel paesaggio sono stati musealizzati attraverso cataloghi, mappe e riproduzioni fotografiche. La scomparsa diventa spettacolo da collezionare.
Il mercato culturale ha la capacità di fagocitare anche le pratiche nate per sfuggirgli, trasformandole in oggetti di desiderio elitario.
La dematerializzazione, anziché annullare il valore di scambio, lo sposta su altre forme: documentazione, certificazione, testimonianza.
Si produce così un consumismo selettivo, che non si nutre più dell’opera materiale, ma della sua traccia, della sua aura concettuale.
In questo senso, la dematerializzazione diventa paradossalmente un nuovo terreno di accumulo e distinzione sociale, coerente con le dinamiche di capitale culturale descritte da Bourdieu.
La dematerializzazione tradizionale mostra come ogni gesto di resistenza possa essere riassorbito dal sistema economico, trasformato in merce simbolica.
Tuttavia, proprio questa tensione rivela la necessità di nuove strategie di civismo culturale: archivi aperti, commons digitali, pratiche collaborative che impediscano la privatizzazione delle tracce.
In questo modo, la dematerializzazione può tornare ad essere non un feticcio di mercato, ma un processo di emancipazione.
In sintesi: sì, la dematerializzazione tradizionale è stata spesso appropriata e fagocitata dal consumismo selettivo, ma proprio questa contraddizione ci obbliga a ripensarla come pratica critica, capace di sottrarsi alla logica del profitto attraverso nuove forme di condivisione e responsabilità collettiva.
Implicazioni culturali
La dematerializzazione dell’arte ridefinisce il “fare cultura” in tre direzioni:
- Memoria condivisa: archivi vivi, repository open access, documentazioni digitali che resistono alla privatizzazione.
- Civismo estetico: l’opera come gesto di responsabilità verso la comunità, più che come bene da collezionare.
- Ecologia dei linguaggi: la smaterializzazione permette di intrecciare figurazione, astrazione, performance e digitale in un continuum fluido.
La dematerializzazione dell’arte, da Lippard al digitale, non è semplice dissoluzione della materia, ma trasformazione del rapporto tra arte, società e mercato. Essa apre spazi di resistenza e civismo, ma porta con sé il rischio di nuove forme di tesaurizzazione. Il compito critico è allora quello di progettare commons visivi e licenze etiche, affinché la smaterializzazione non diventi un’altra forma di accumulo, ma un’occasione di emancipazione culturale.
Mario Iannino
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