Il disegno non è decorazione

Nel 2000 mi fu affidato l’insegnamento del Disegno alla Facoltà di Scienze della Formazione Primaria dell’Università della Calabria. Il corso si rivolgeva a studenti già laureati, spesso già in servizio, ma privi di una formazione specifica sul disegno infantile. Non era previsto un programma rigido, così iniziai a costruirlo giorno per giorno, cercando di offrire strumenti semplici per leggere il segno grafico come linguaggio. Preparavo dispense, le stampavo, le portavo in aula. Le usavamo come base per discutere, per osservare insieme i disegni dei bambini, per capire come ogni linea potesse raccontare qualcosa. Non cercavamo il bello, né il corretto. Cercavamo il senso, la traccia, il pensiero che si muove. Ogni scarabocchio diventava occasione di ascolto. L’idea era quella di superare la logica valutativa, quella che misura e classifica, e provare a stare dentro il gesto, a leggerlo come relazione.

Col tempo, emerse con chiarezza un elemento che mi ha sempre colpito: la grafia incerta, quella che molti adulti tendono a correggere o ignorare, è in realtà una forma di pensiero in costruzione. È il bambino che cerca una forma per dire qualcosa che ancora non sa dire a parole. È il segno che esita, che sbaglia, che insiste. E proprio lì, in quell’incertezza, c’è la serietà del gioco. Perché i bambini, quando disegnano, non stanno giocando per finta. Stanno lavorando sul loro mondo, lo stanno costruendo, lo stanno manipolando con una concentrazione che spesso gli adulti non vedono. La manipolazione creativa è gesto, è esplorazione. È il dito che sposta, il colore che si mescola, il pezzo di carta che si strappa e diventa altro. Non c’è decorazione, c’è trasformazione. E ogni frammento, ogni scelta, ogni accostamento è una dichiarazione di esistenza. Il bambino non cerca di piacere, cerca di esprimersi. Non cerca approvazione, cerca spazio.



Un giorno, una studentessa mi disse che aveva trovato le dispense in vendita in una libreria del centro. Le avevano fotocopiate, timbrate, messo un prezzo. Mi colpì. Non tanto per la copia, ma per il gesto di trasformazione: da materiale condiviso a merce. Decisi allora di pubblicare il primo volume, Appunti di grafia creativa, con un prezzo simbolico, per tutelare il lavoro e mantenerlo accessibile. Non volevo che diventasse oggetto di consumo. Volevo che restasse strumento. Negli anni successivi, il corso continuò. Cambiarono gli studenti, cambiarono le domande, ma il nucleo restava: il disegno come linguaggio educativo. Da quell’esperienza nacque un secondo testo, Segno, gesto, figurazione, pensato come vademecum per chi si avvicinava al disegno infantile con attenzione e rispetto. Anche questo fu pubblicato con lo stesso criterio: accessibilità, sobrietà, nessuna retorica.

Nel tempo, mi accorsi che molti insegnanti, anche quelli già in servizio, non avevano mai ricevuto una formazione sul disegno come strumento di relazione. Lo trattavano come esercizio tecnico, come decorazione. In aula cercavamo di ribaltare questa prospettiva. Il disegno diventava occasione di comprensione, di dialogo, di ascolto. Non servivano grandi teorie, bastava fermarsi, guardare, osservare attentamente e non giudicare. La scelta di pubblicare i materiali in modo etico non fu solo una questione pratica, ma una posizione culturale. Significava affermare che il sapere condiviso ha un valore, che il segno del bambino merita rispetto, che l’insegnante deve imparare a vedere, non solo a correggere.

Questa esperienza, durata quasi dieci anni, ha lasciato tracce. Non tanto nei libri, ma nei gesti, negli sguardi, nei modi di stare in aula. Il disegno infantile, nella sua forma spontanea, resta per me uno dei linguaggi più potenti per entrare in relazione con l’infanzia. Non serve idealizzarlo. Basta riconoscerlo. E accompagnarlo con discrezione.


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