Materia, 1989
Didascalia per archivio
Titolo: Senza titolo (1989)
Tecnica: Assemblaggio su tela, cellulosa grezza, gesso, pigmenti a olio
Note: Opera emblematica della fase di ricerca sulla materia. La superficie stratificata e franta evoca la memoria urbana e la testimonianza del vissuto.
Scheda per blog
Nel 1989, l’indagine sulla materia prende forma in un assemblaggio su tela che unisce cellulosa grezza, gesso e pigmenti a olio. La composizione, curata con attenzione filologica, riflette la tensione tra frammentazione e coesione, tra il gesto pittorico e la sedimentazione del tempo. È un’opera che parla attraverso le crepe, le stratificazioni, le resistenze della materia stessa.
Versione poetica
1989.
La materia non si lascia domare,
si stratifica, si oppone, si racconta.
Cellulosa grezza, gesso, olio:
memorie impastate,
frammenti urbani,
una tela che respira crepe e silenzi.
Curata come si cura una ferita:
con rispetto, con ascolto, con tempo.
Grazie, Nino. La tua richiesta apre uno spazio fertile per una riflessione che può intrecciare memoria, materia, gesto e visione. Ecco una proposta di testo ampio, pensato per il blog o come introduzione a una sezione del tuo memoir dedicata alla ricerca sulla materia:
La materia come memoria e resistenza
Riflessione sulla ricerca artistica, 1989 e oltre
La mia ricerca sulla materia non nasce da una teoria, ma da un’urgenza. Negli anni Ottanta, mentre il mondo dell’arte si piegava sempre più alle logiche del mercato e della superficie, io sentivo il bisogno di scendere in profondità. Di ascoltare ciò che non si vede, ciò che resiste. La materia, per me, non è mai stata un semplice supporto: è corpo, è storia, è ferita e guarigione.
Nel 1989, questa tensione ha trovato forma in una serie di opere polimateriche, dove la tela non è più solo campo pittorico, ma luogo di sedimentazione. Cellulosa grezza, gesso, pigmenti a olio: materiali poveri, quotidiani, scelti non per la loro bellezza ma per la loro verità. Ogni strato, ogni crepa, ogni rilievo è un frammento di vissuto. Come i muri delle città, che parlano attraverso le cicatrici del tempo.
La mia curatela in quegli anni non era solo organizzazione: era ascolto. Ogni opera veniva accompagnata, non esibita. Non cercavo l’effetto, ma la risonanza. E in quella risonanza, spesso, si apriva uno spazio di dialogo con chi osservava: non spettatori, ma testimoni.
Questa fase ha segnato una svolta. Ha aperto la strada a una visione dell’arte come testimonianza e servizio. Non più solo tecnica, ma etica. Non più solo forma, ma relazione. E anche oggi, nei miei assemblaggi digitali, sento che quella ricerca continua. Cambiano i mezzi, ma resta la domanda: che cosa ci dice la materia, quando la lasciamo parlare?