la destinazione ignota dell'arte

 



 La poetica dell’assenza non è solo una constatazione, ma una filosofia che attraversa la mia opera, la mia vita, e il mio modo di vedere il mondo:


La poetica dell’assenza

Ci sono opere che si perdono.
Ci sono gesti che non trovano ritorno.
Ci sono silenzi che parlano più di mille esposizioni.

La mia storia artistica è punteggiata da presenze forti e da assenze ancora più eloquenti. Come quelle opere inviate a Roma, piccoli formati carichi di materia e tensione, che non tornarono mai. Non fu solo una perdita fisica: fu una rivelazione. L’arte non è possesso. È offerta. È rischio. È viaggio senza garanzia di ritorno.

Da allora, ho imparato a convivere con l’assenza. A riconoscerla come parte del processo creativo. A vederla non come mancanza, ma come spazio aperto. L’assenza è ciò che permette alla memoria di agire, alla parola di farsi necessaria, alla materia di diventare evocazione.

Nei miei lavori polimaterici, la lacerazione non è rottura: è apertura. Il frammento non è scarto: è testimonianza. E anche quando l’opera svanisce, resta il gesto, resta il pensiero, resta la traccia.

La poetica dell’assenza è anche un atto di fiducia. Fiducia nel fatto che ciò che è stato creato, anche se non più visibile, continua a vivere. In chi lo ha visto, in chi lo ha toccato, in chi lo ha solo immaginato.

E oggi, mentre scrivo, mentre assemblo digitalmente, mentre rifletto su ciò che è stato e su ciò che non è più, sento che l’assenza mi accompagna. Non come vuoto, ma come possibilità. Come invito a ricordare, a raccontare, a trasformare.



 


C’è stato un tempo in cui bastava una telefonata, un invito sincero, e l’arte prendeva il treno. Era il 1989, o giù di lì. Un gallerista romano, degno di fiducia e caro amico, mi propose di partecipare ad Arte Fiera Roma, era la prima edizione, se non sbaglio. Accettai con entusiasmo, ma anche con quella sobrietà che la vita insegna: inviai due o tre lavori, piccoli formati, opere dense di materia, tensione, e silenzio. Piccoli, sì, per praticità, ma anche perché la materia non ha bisogno di gridare per farsi sentire.

La rassegna si concluse. Nessuna eco. Nessun ritorno. E anche le opere, come certi incontri, si dissolsero. Non le rividi più. Nessuna comunicazione, nessuna restituzione. Solo l’assenza.

Non fu un dramma, ma una ferita sottile. Quelle opere erano parte di me, plasmate con mani e memoria. Eppure, come spesso accade, l’arte prende vie proprie, si perde, si dissolve. Forse sono ancora lì, in qualche deposito, o forse hanno trovato occhi nuovi. Non lo saprò mai.

Quella perdita mi ha insegnato qualcosa che nessuna scuola d’arte insegna. ma solo la vita: che anche la materia può svanire. Che il gesto creativo non sempre trova ritorno. Da allora, ogni opera che parte porta con sé un frammento di fiducia, ma anche di addio.

Eppure, proprio in quell’assenza, ho trovato una nuova forma di presenza. La materia che non torna diventa memoria. L’opera che si perde diventa racconto. E il vuoto che resta si trasforma in spazio per riflettere, per scrivere, per continuare.


 L’assenza non è una semplice mancanza materiale: è una presenza diversa, più sottile, più profonda. È ciò che resta quando qualcosa non c’è più, ma continua a vibrare nel pensiero, nel ricordo, nella forma che ha lasciato.

L’assenza come forma di presenza

Assenza non è vuoto.
Non è ciò che manca, ma ciò che persiste senza corpo.
È la traccia che resta dopo il passaggio,
il silenzio che parla dopo il suono,
la materia che ha smesso di essere visibile,
ma continua a esistere nel pensiero, nel gesto, nella memoria.

Le opere che non tornano, le parole censurate, gli spazi che non si possono più abitare:
tutto questo non è perduto.
È trasformato.

L’assenza è una forma di resistenza.
Ci costringe a ricordare, a ricreare, a raccontare.
Ci invita a dare forma all’invisibile,
a cercare senso dove il senso sembra svanito.

Nel mio lavoro, l’assenza è diventata linguaggio.
La crepa, il frammento, il vuoto:
sono luoghi di rivelazione.
Sono aperture, non chiusure.

E così, anche ciò che non c’è più
continua a parlare.
Con voce sottile, ma insistente.
Con forza poetica, ma concreta.
Con la dignità di ciò che non ha bisogno di essere visto per essere vero.


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